venerdì 22 febbraio 2013

chiedi chi erano i mumford. ma non a me


mia figlia – 13 anni – parlando degli ultimi brit awards, mi ha informato che il premio come miglior band britannica era stato vinto dai mumford & sons. cosa che va anche bene, il gruppo è (abbastanza) interessante, ha riportato in auge un certo folk, hanno il banjo, ecc. ecc. la cosa che mi ha fatto riflettere, è che i tizi hanno vinto sugli one direction e sui muse. che è come far competere nella stessa categoria un a pera, un autogru e un album da disegno. oppure un cavallo, un castello medievale e uno spinterogeno. ovverosia tre cose che non dovrebbero entrarci niente l'una con l'altra. infatti l'indomani la presentazione, la tribù planetaria dei, o meglio delle, directioners, si interrogava sgomenta su chi fossero i barbudos che avevano scippato la corona ai loro principini. Se non avete idea di caspita siano i, o soprattutto le, directioners, vuol dire che non avete figlie adolescenti. gli one direction sono la boy band del momento, cinque inetti sui vent'anni che ne dimostrano quindici, e i loro fans si fanno per l'appunto chiamare directioners. e l'interrogativo non è per nulla peregrino. perchè se i cinque incapaci avessero perso, che so da ed sheeran o dagli emblem three (idoli per teen agers, non vi sforzate ad andare a cercare chi siano), l'avrebbero capito, anche se non accettato. ma i mumford & sons e i muse che ci azzeccano? e invece ci azzeccano, evidentemente, e questo solleva secondo me diverse questioni. qualche anno fa le tre band avrebbero gareggiato in tre categorie diverse, sicuramente. altrimenti sarebbe stato come se, per dire, chi dovere avesse dovuto scegliere fra sex pistols, queen e muppets. inconcepibile. oggi invece la cosa è evidentemente concepibile, e questo in primis ci fa supporre che le differenze fra i tre gruppi siano in realtà molto sfumate e che il genere musicale così come lo intendevamo non esiste più. si, perché è inutile che una formazione ancorchè valida come i mumford & sons venga sbandierata come il nuovo che avanza e che si millanti una loro durezza e purezza, dal momento in cui accetta di buttarsi – perchè le conviene ovviamente – nell'agone insieme ai cinque imberbi. e anche i muse non sono nè i nuovi queen, o nuovi u2 o nuovi quel che vi pare. alla fine nonostante il loro strepitare saranno ricordati più probabilmente come i nuovi take that, perché sono personaggi pop e stop, e la musica che fanno (neanche bene, ma questo è solo un mio parere) conta zero. non fossero stati personaggi da rotocalchi, col piffero che l'insignificante matthew bellamy avrebbe accalappiato kate hudson.
boh, alla fine qualcuno dirà che è giusto così, cheè democrazia, globalizzazione. ma a me non torna che ci siano molti che hanno nel loro lettore muse, one direction e mumford in fila. perchè mi hanno insegnato che non si confrontano le mele con le pere, e, come dice un vecchio adagio, se ti metti a discutere con uno stupido, la gente potrebbe non notare la differenza. e non ho detto che gli stupidi siano i cinque bambocci

lunedì 18 febbraio 2013

qualcuno deve pur averci presentato (primi incontri – casuali o meno e non sempre capiti – con i miei compagni di viaggio)

3. appendice a
http://giannozzo.blogspot.it/2013/02/qualcuno-deve-pur-averci-presentato_9858.html

dopo aver ascoltato fire and water con grande insistenza, decisi che avevo bisogno di ascoltare qualcos'altro dei free. e mi misi in cerca. per un ragazzino di 12 anni che vive in una cittadina di provincia negli anni 70, non c'erano naturalmente tutte le fonti di approvigionamento musicale che ci sono adesso. ma tant'è. forte della mia paghetta, mi recai armato di giovanile ottimismo nel negozio di dischi - praticamente l'unico - che frequentavo e dove avevo comprato quasi tutti i long playings che possedevo. forse non era molto, non lo so, ma per la sete di musica e gli orizzonti che avevo da esplorare allora, lo era eccome.
comunque, dopo un certo scartabellare, trovai qualcosa. c'è da dire che il "certo scartabellare" durava e dura tutt'ora molto più del previsto. rovistare negli scaffali dei dischi è sempre stata una delle più grandi gioie della mia vita, paragonabile veramente a poche altre, per quanto mi riguarda.
quello che trovai fu "the free story". avevo letto su ciao 2001 che era un'antologia ed era un doppio lp. ero quindi pronto al gravoso esborso finanziario. l'album era sigillato piuttosto stretto e il retro non riportava i brani contenuti. detti quindi i soldi alla signora nedì, che mi dette l'equivalente resto di un disco singolo. dopo qualche minuto necessario a fare il calcolo (ho problemi serissimi con la matematica), e non, lo giuro, a soppesare l'eventualità di approfittarmi dell'errore, dissi candidamente alla signora che aveva sbagliato resto. la signora nedì mi ringrazio' e ricompensò la mia onestà con 1000 (mille) lire.
indovinate chi era quel sabato pomeriggio il ragazzino più contento del mondo

domenica 17 febbraio 2013

qualcuno deve pur averci presentato (primi incontri – casuali o meno e non sempre capiti – con i miei compagni di viaggio)


2. free, acqua fuoco e cioccolato


doveva essere la primavera del 1974. forse del 1975, ma primavera lo era. andai a casa di un mio compagno di classe. questo mio compagno aveva un fratello più grande che al momento viveva a roma. il suddetto fratello aveva però lasciato qua la sua batteria rossa e la sua collezione di 33 giri. non mi fu praticamente permesso ahimè di suonare la batteria - una hollywood - ma mi venne concesso di portare a casa alcuni di quei dischi da ascoltare. mi ricordo nitidamente la consistenza di quei dischi, le copertine massicce. ne presi 4: mad dogs & englishmen di joe cocker, sssh! e cricklewood green dei ten years after e fire and water dei free. i primi tre avevano copertine colorate, forse più simili a quelle che mi erano capitate fra le mani fino a quel momento, magari più anonime. da quella dei free, quattro giovani capelloni mi guardavano in maniera un po' sfrontata. ok, mi dissi, mettiamo questo, e facciamo merenda. premessa. nella mia ancor breve carriera di fanatico del rock, mi ero dedicato, diciamo pure incaponito, con il progressive. e quindi mi ero trovato alle prese più che altro con suoni piuttosto astrusi ancorchè affascinanti per un ragazzino. per sovrammercato tali suoni venivano da fonti sonore approssimative: un registratore a cassette sanyo, un minuscolo giradischi europhon che spariva letteralmente sotto al disco. tutto questo rendeva l'esperienza auditiva forse un po' faticosa, anche se questo non scoraggiava il vostro piccolo eroe.
in ogni caso, metto il disco sul piatto, e mi accingo ad adddentare un biscotto al cioccolato. mentre mi pregusto il suddetto biscotto, vengo letteralmente investito dai primi suoni di fire and water, il brano che dà il titolo al disco. mi ricordo che la cosa mi colpì molto, tanto da farmi rimanere con il biscotto a mezz'aria. non che altri incipit non mi avessero impressionato, questo no. ricordo ancora quando misi la cassetta di selling england by the pound ed ebbi la benedizione della voce nuda di peter gabriel, o l'inizio roboante di into the fire dei deep purple. ma qui, era tutto diverso. il disco inizia con alcuni semplicissimi accordi di chitarra elettrica. abituato com'ero a sonorità molto più arzigogolate, mi ricordo che pensai "cribbio (non era proprio cribbio, neanche ca**o, all'epoca ero ancora molto educato. diciamo una via di mezzo) ma allora esiste anche qualcos'altro. e certo che esisteva. avevo in un colpo solo scoperto il rock blues, quello che sarebbe diventato forse il mio gruppo preferito, il mio cantante – senza forse - preferito e la piena consapevolezza dell'importanza fondamentale ed imprescindibile del basso nella musica moderna. e tutto in un disco solo.
va detto, sono legato tantissimo anche gli altri dischi che presi in prestito, rifare mad dogs & englishmen è uno dei miei sogni nel cassetto. ma l'amore che mi lega ai free dal quel giorno di primavera del 1974 (o 1975), è un vincolo veramente speciale. non ho avuto il privilegio di vederli dal vivo, si sono sciolti nel 1973 e il chitarrista paul kossoff sarebbe scomparso nel 1976. ma ho avuto l'ardire e la fortuna di provare a cantare o suonare tante loro canzoni. ed è sempre un'emozione speciale, l'emozione della semplicità, dell'essenza del rock.
ah, poi il biscotto l'ho mangiato, non vi preoccupate. anche ai biscotti al cioccolato sono molto legato.

giovedì 14 febbraio 2013

non urlare, ti sento. my personal sanremo


io nonostante tutto sono ancora parecchio affezionato al festival. a molte canzoni degli anni 60 e 70 sono ancora piuttosto legato, e posso anche dire che mi hanno formato. anche negli anni 80 e 90 qualcosa di dignitoso si è sentito. negli ultimi anni l'avvento dei reality e dei talent show, oltre al ruolo di sostanziale sottofondo per immagini che la musica leggera è stata costretta ad assumere, hanno drasticamente impoverito l'offerta della kermesse canora (come si dice oggi) e anche il mio interesse per essa. unito al fatto che invecchio, naturalmente, ma questa è un'altra storia. in più da quando il festival è diluito in cinque serate è diventato francamente oneroso seguirlo, e così questi ultimi anni sono scivolati via senza lasciare tante tracce, perlomeno per me.
quest'anno sono riuscito a seguire le prime due serate, quelle riservate ai cosiddetti bigs e quindi, già che ci sono, vi dico come le ho sentite.
premetto che le ho sentite male. nel senso che, in generale ho un problema, con il suono pop moderno, in cui le voci son troppo troppo alte rispetto agli strumenti e, dato che le canzoni odierne sono fatte per essere sentite principalmente su personal players e computers attraverso cuffiette e piccoli altoparlanti, hanno un suono finale, quello tipico da mp3, che non mi piace, anzi mi disturba anche un po'. sarà anche una fisima da vecchio trombone abituato agli hifi vintage, ma tant'è.
in più, e non sono stato il solo a rilevarlo, dalla tv il suono dell'orchestra giunge molto compresso, le voci sono in primissimo piano, e questo naturalmente non aiuta intonazioni non sempre calibratissime e interpretazioni spesso non memorabili.
quindi, tutto questo premesso e dato un unico ascolto, ecco quello che le 28 (maremma, parecchie) canzoni, mi hanno lasciato.

almamegretta. mai stato un fan di raiss e compagni. li ho sempre trovati troppo ammiccanti e piacioni verso un tipo di pubblico, soprattutto femminile, culturalmente avvertito. comunque, figura dignitosa. meglio il brano da loro scritto, che quello scritto dagli zampaglione, un cocktail indigeribile per me
annalisa. ne ignoravo bellamente l'esistenza fino a ieri. nonostante la vocalità troppo talent, il brano scintille mi è piaciuto, anche se forse un po' troppo pretenzioso per la bimba. quell'altro era veramente da amici, nel senso di de filippi.
chiara. quando di un cantante si dice, però è bravo, però senti che voce, potrebbe cantare anche l'elenco del telefono, io avverto sempre un problema. io voglio sentire cantare una canzone, non un elenco. inoltre, come detto prima, le nuove eroine della voce, cantano ad un volume troppo alto, e questo mi disturba. fra televoto e autore (il re mida bianconi) immagino che il futuro che verrà arriverà in alto. non mi piace, ma il pezzo ovviamente funziona. anche l'altro.
daniele silvestri. non ce l'ho mai fatta con daniele. ha tutta la mia stima, intendiamoci, ma, non so se è un fatto generazionale, l'ho sempre trovato troppo da liceali, universitari al massimo, per metterlo insieme o vicino ai cantautori che l'hanno preceduto. la musica non mi ha mai intrigato e mi è sempre sembrata messa in secondo piano rispetto a i testi. le canzonette tipo salirò o la paranza poi non mi hanno mai toccato. il bisogno di te appartiene a questa categoria, mentre a bocca chiusa, una bella canzone, mi fa troppo clichè, compreso il baffone che interpreta la lis (lingua italiana dei segni) in modo troppo teatral- centrosinistra.
elio e le storie tese. vabbè, un gigante fra i nani. come una squadra d nba nel campionato italiano di basket. dannati forever sembra già un classico del loro repertorio, la canzone mononota, un imbarazzante prova di onnipotenza strumentale, letteraria ed interpretativa. zio frank sarebbe contento.
malika ayane. lei mi viene a noia dopo tre secondi, i negramaro, insieme a jovanotti, li considero la massima jattura per la musica di casa nostra.
marco mengoni. peccato, la voce mi sembra bellissima. ma il ragazzo non sa cantare, nè stare sul palco e i pezzi sono quelli che sono. compreso, anzi mi sembrava il peggiore, quello scritto da pacifico e nannini.
maria nazionale. con la musica napoletana bisogna andarci cauti. nel senso che da non napoletani forse si giudica male. detto questo, la tipa canta, i brani sono dignitosi, gli autori ci sono, e lei li ha interpretati in maniera molto personale. anzi penso che quello degli avion travel sarebbe stato secondo me peggiore cantato dall'ammiccante servillo (peppe).
marta sui tubi. francamente si sentiva troppo male per dare un giudizio compiuto. non sono neanche un grande fan dell'indie rock (se esiste), troppo autoreferenziale e supponente. quindi non saprei che dirvi. il look era imbarazzante, se serve, il tipo pelato urlava troppo, e le due canzoni mi son sembrate pressoché uguali.
max gazzè. max è probabilmente il mio cantautore italiano contemporaneo preferito, e un musicista con i controfiocchi. una musica può fare è uno dei pezzi più belli degli ultimi sanremo, e anche il solito sesso si ascoltava. penso però che il suo meglio lo abbia già dato. e anche questi due pezzi lo testimoniano. anche se piuttosto nel suo stile, il primo era un po' troppo morgan, l'altro non memorabile. comunque forza max.
modà. ma per piacere.....
raphael gualazzi. non penso che il ragazzone sia il genio quel pianoforte che dicono, ma ci sa fare. l'audio non l'ha aiutato, ma il brano sai mi è piaciuto molto, piuttosto billy joel ma sufficientemente personale. di più, è il mio brano preferito del festival. e anche l'altro discreto, direi.
simona molinari. la tipa secondo me ha commesso due clamorosi autogol, presentandosi in minigonna e con peter cincotti, dato che non sarebbe una cantante pop jazz neanche con un audio migliore. cincotti, onesto mestierante americano, sembrava il suo insegnante, e temo che le sue gambe – di simona non di peter – rimarranno più impresse della sua interpretazione.
simone cristicchi. non mi piace, ha un modo di cantare e di presentarsi che non sopporto. in più mi è sempre sembrato che si appropriasse di argomenti alti senza rendere loro un servizio adeguato. pure nel suo caso devo dire che la resa audio lo ha danneggiato, anche se in mi manchi le stonature erano evidentissime. due brani nel suo stile.
sui giovani non mi pronuncio. primo perché da vent'anni sono purtroppo una delusione totale, secondo perché ci sono diversi bigs che dovrebbero passare secondo me prima da tale categoria e poi approdare fra i seniores.
domani – venerdi 15 dicembre – sarà la serata delle covers. alcune si preannunciano interessanti, gualazzi che rifa' luce, gazzè in ma che freddo fa, silvestri che affronta piazza grande. 
altre da brividi di raccapriccio, come i modà che rifanno io che non vivo, o mengoni in ciao amore ciao.......
ma la scontatissima standing ovation sarà per chiara che urlerà almeno tu nell'universo. ahimè

lunedì 11 febbraio 2013

ad ogni dimissione di papa

ho avuto modo di vedere dal vivo, diciamo così, due papi in vita mia. il primo fu paolo VI (o paolo vì come lo chiamò mike in un leggendario rischiatutto), durante una gita delle medie. lo vidi passare sulla portantina nella basilica. sebbene, se non ricordo male, fossi piuttosto lontano e la chiesa fosse stracolma, mi dette l'impressione di essere vecchissimo.
poi, ho visto benedetto XVI, lo scorso dicembre, questa volta in sala nervi. in questo caso ero seduto piuttosto vicino, dato che mi ero esibito con la badabimbumband poco prima davanti alla sua sedia (vuota) e quindi avevamo dei posti riservati. nonostante l'entrata da star, grazie soprattutto al quasi isterico entusiasmo dei papa boys, e la camminata a passo piuttosto spedito, la tecnologia moderna - i maxischermi - ci hanno rivelato, come quasi quarant'anni fa, un papa altrettanto vecchissimo. è vero, ho visto con i miei occhi, ratzinger rabbonire un leoncino un po' irrequieto, ma l'impressione è stata proprio quella dell'estrema vecchiezza. che è un po' l'età che di solito associamo alla figura papale. 
fatta eccezione per papa woytila che fu eletto, papalmente parlando, giovanissimo, se ci pensiamo bene, gli ultimi pontefici ci tornano alla mente come teneri vecchietti. giovanni XXIII, paolo VI, papa luciani. e anche lo stesso woytila. nonostante i primi anni del suo peraltro lunghissimo pontificato, nei quali del papa si sottolineava spesso la verve sportiva (riguardatevi per esempio il papocchio di renzo arbore), del papa polacco con tutta probabilità si ricorderanno gli ultimi anni, in cui era vecchio e malato.
e questa associazione mi ha fatto riflettere.
è vero, che si dovrebbe arrivare a fare i papi dopo una lunga esperienza porporata, però è anche vero, e le dimissioni (si possono chiamare così?) del pontefice twittante forse lo dimostrano, che il papa ha parecchio da fare, soprattutto in questo secolo.
quindi, dopo l'aitante woytila degli inizi che si dette piuttosto da fare - permettemi di dire pure troppo - ci si aspettava un papa fisicamente all'altezza, se non del predecessore, del compito. e ratzinger all'inizio lo sembrava - ripermettetemi di dire pure troppo - un po' per la parlata teutofona, un po' per il suo passato di strenuo conservatore.
quindi, il fatto che abbia abdicato dopo soli 8 anni, desta senz'altro un po' di meraviglia.
anche perchè i tempi rispetto a quelli di celestino, sono un pizzico diversi
non voglio e non mi interessa fare dietrologia, ma ripeto, è un gesto che secondo me merita una riflessione, perché sgretola diverse certezze.  in primis, perchè, figura inedita, ci troviamo di fronte ad un ex papa, e poi viene minato alle fondamenta, uno dei detti popolari più antichi e più usati.  quello sulla morte del suddetto. vale anche l'ex, per dire?
un fatto però ci consola. che il papa abbia lasciato in latino e non con un twit.
deo gratia

sabato 9 febbraio 2013

l'importanza di chiamarsi ernesto. o brenda. o anche zoe


in radio oggi si macina di tutto. sto parlando di musica. tanto presunto rock, spesso posticcio, rap più o meno dozzinale, romanticherie zuccherose, ballabili (come si diceva una volta) variamente insopportabili. in questo mare minimum di sonorità standardizzate, c'è questa canzone che in qualche modo mi era saltata all'orecchio http://youtu.be/Tlj0SZUB-l8. il pezzo è cantato da brenda boykin. il nome mi diceva qualcosa, ma non capivo o non riuscivo a ricordare cosa. mi sono messo a scartabellare i miei dischi, e l'ho trovato. un disco del 2000 di un gruppo chiamato home cookin', la cui cantante – come la copertina segnalava ampiamente - era per l'appunto brenda boykin. nulla di particolare fin qui. mi spinge a raccontare di questa cantante il fatto che il disco mi fu dato dal mai troppo compianto ernesto de pascale. all'epoca lavoravo a radio fatamorgana, e fui invitato alla presentazione del disco in questione. la presentazione si teneva a firenze, perchè ernesto aveva deciso di far uscire il lavoro per la sua etichetta, il popolo del blues, dando ulteriore prova, se ce ne fosse stato bisogno, del gusto, il fiuto, il coraggio che hanno contraddistinto la sua troppo breve carriera di giornalista, produttore e musicista.
il gruppo, un quartetto, era presente al completo, all'incontro che si teneva in un locale fiorentino che si chiamava come mia figlia, che all'epoca aveva un anno. scherzammo molto con brenda e gli altri su questa coincidenza, tanto che gli home cookin' con grande gentilezza e simpatia, autografarono il cd dedicandolo a me e mia figlia. brenda si disse certissima che lei sarebbè diventata una "music lover". ho ancora a casa la tovaglietta con il nome del locale (e di mia figlia).
brenda ha continuato a cantare anche dopo gli home cookin' costruendosi una solida fama in america, in particolare nella bay area da cui proviene.
averla ritrovata, quasi per caso, grazie o a causa dei meccanismi più o meno misteriosi che fanno si che in una scaletta questo pezzo venga trasmesso fra mica e jovanotti, mi fa molto piacere. mi fa piacere ritrovare brenda e spero che questo brano induca qualcuno ad ascoltare gli altri suoi dischi. mi fa piacere ripensare e ricordare ernesto de pascale, l'influenza e l'ispirazione che che ha avuto ed ha su tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e frequentarlo. e mi fa piacere che mia figlia, che suona il violino, fra gli one direction e justin bieber nel suo i pod abbia 40 canzoni dei beatles. grazie brenda. grazie ernesto. e grazie zoe

martedì 5 febbraio 2013

in boss we trust

la casa dove abito si trova nel quartiere più agiato e conservatore della città, e la parrocchia che lo rappresenta è forse la più integralista di tutte. l'anno scorso, al momento della benedizione pasquale, mi suona alla porta il parroco. "sono qui per la benedizione". lo faccio accomodare. "ah, che bella casa, quanti libri, quanti dischi" ecc. ecc. "guardi, io non sono credente, ma la padrona di casa lo è, quindi se le fa piacere benedire la casa, penso faccia piacere anche a lei, ed io non ho nulla in contrario. il prete, un uomo sulla quarantina, ci pensa un po' su e poi "beh, ho molto da fare, ci sono tante case da visitare, arrivederci" "arrivederci, grazie". ha benedetto cinque appartamenti su sei, forse come media gli bastava, boh.
mezz'ora fa, suonano alla porta. quello che mia nonna avrebbe definito un pretino, in giubbottino nero da trekking e clergyman, mi chiede se voglio la benedizione. gli rifaccio lo stesso discorso che feci al suo collega, o superiore. nota anche lui i dischi, parliamo un po' di musica, così in generale. poi mi fa 
"se per lei va bene, io benedirei la casa, anche perché sono un grande fan di lui" e prende un libro su bruce springsteen. "l'ho visto a firenze". "sotto l'acqua". "non la sentivo neanche"
breve silenzio in onore del boss. "reciterebbe un padre nostro con me?" fa lui. "preferirei di no". "va bene allora se permette leggo un brano a caso dal vangelo". "va bene". e dal vangelo di matteo mi legge di barabba. parliamo un po' del brano, lui non chiama barabba brigante o ladrone. "era una sorta di terrorista" dico io. "si, anche se dipende da chi vince la guerra, per dire che uno è terrorista". detto questo, benedice la casa, fa il suo sermoncino, parliamo un po' di jesus christ superstar e se ne va.

apocalypse postilla

in uno spot pubblicitario di uno di questi attrezzini per il test casalingo di gravidanza, si vede l'attrezzino in questione in primo piano: sul display non appare più la evdentemente troppo enigmatica sbarretta blu, ma una scritta che dice "INCINTA".
che vi avevo detto?

http://giannozzo.blogspot.it/2013/02/apocalypse-express.html

lunedì 4 febbraio 2013

apocalypse express


qualche anno fa pensavo che la civiltà occidentale non sarebbe durata più di qualche decennio ancora. oggi sono molto meno ottimista. me ne sono convinto guardando lo spot pubblicitario di un macchina per il caffè espresso, uno dei massimi simboli del declino della civiltà occidentale, soprattutto da quando uno dei suoi più celebri testimonials ha deciso di farsi stirare gli zebedei. questo piccolo elettrodomestico, realizzato oggi nelle fogge, colori e materiali più avant garde possibili è diventato un oggetto assolutamente indispensabile in ogni moderna casa occidentale – ma forse anche orientale – che si voglia definire tale. prima di tutto il caffè, soprattutto all'italiana, è assurto ancor di più al rango di irrinunciabile piacere quotidiano (unito al cioccolatino da gustare con voluttà sulla chaise longue di le corbusier) e di non negoziabile panacea di tutti i mali. ma naturalmente nei tempi e modi voluti dal ritmo frenetico della vita moderna, come diceva il poeta. e poco male se l'autenticissimo 100% arabica viene estratto da una capsula di plastica riempita chissa come. Ma volete mettere tornare a casa dal vostro ufficio in pieno centro, slacciarvi la cravatta, essere accolti da vostra moglie che ha appena terminato le pulizie di casa in abito da sera e tacco 12, che vi sussurra languidamente "vieni, non rinunciare al piacere di gustare un buon caffè, premendo un solo tasto". eh, son soddisfazioni. che vi volete mettere a mettere l'acqua nella moka, poi metterci il caffè in polvere, magari metà lo spargete nell'ambiente, perché, si sa è un 'operazione difficile, avvitare, mettere sul fuoco, aspettare. no, non si può. anche perché magari avete fatto lo stesso tragitto fino a casa impostando il navigatore, dopo avere chiamato i numeri di telefono che chiamate tutti giorni impostandoli dalla rubrica, e avete anche lasciato che la macchina vi guidasse nel parcheggio. quindi, nell'attesa di un chip nei vostri vestiti che li convinca a sfilarsi da voi da soli, possiamo con tutti i diritti permetterci una macchina per il caffè, e qui veniamo alla pubblicità di cui accennavo all'inizio, che funzioni in modo intuitivo.
intuitivo? ma che deve intuire? già c'è solo da mettere una cialda in una fessura modellata e pigiare un tasto. c'è bisogno anche dell'aiutino? riusciremo poi a trovare la bocca?
che c'entra, anch'io ho un cellulare con un sacco di numeri memorizzati ed uso il navigatore satellitare, ma è anche vero che non mi ricordo più un numero di telefono e che mi faccia fatica consultare una carta stradale. fatica. ecco il busillis. ci fa fatica fare tutto. ci fa fatica capire chi sia quello che parla in tv, ed ecco il sottopancia che ci dice immediatamente chi sia quello che cje blatera in quel momento, famoso o sconosciuto che sia, meritevole d'ascolto o meno. ci fa fatica ricordare dove abbiamo già visto quell'attore – magari qualche mese prima – ed ecco che il trailer pomposamente ci annuncia che è stato il protagonista di, che il regista è quello che ha diretto il film x e che il barista è lo stesso che ha servito i drinks nel film y. abbiamo bisogno di idoli ed eroi che durino pochi mesi, così non dobbiamo fare la fatica di ricordare. e se vogliamo vincere un telequiz, che sia per puro culo
vogliamo governare e gestire tutto con un dito, quel dito che non riusciamo più a toglierci dalla tasca – se non da un'altra parte. quel dito che magari un giorno di questi premerà il pulsante dell'auotodistruzione. in modo intuitivo, naturalmente

domenica 3 febbraio 2013

qualcuno deve pur averci presentato (primi incontri – casuali o meno e non sempre capiti – con i miei compagni di viaggio)


piccola introduzione

ho incontrato il rock molto presto. non presto la mattina, ma proprio presto nella vita. erano gli anni 70 e probabilmente era più facile rispetto ai giorni nostri. ce n'era tanto di più in giro, ed era anche migliore. un po' come dice oggi keith richards per le droghe, se vogliamo.
in ogni caso già a sette/otto anni qualche 45 diciamo "off" si insinuava fra quelli che sceglievo da una cassetta di legno nel negozio di elettrodomestici e infilavo nel mio mangiadischi arancione e che provenivano da sanremo e canzonissima. poi è arrivata la radio e il rock (o pop come si diceva allora) mi ha travolto ed ancora sono – per fortuna – nell'occhio del ciclone. ma di questo ho già parlato anche qui. in questa rubrichetta, che non avrà andamento nè cronologico nè tantomeno regolare, voglio parlarvi di come ho incontrato canzoni, musicisti, generi, personaggi, dischi, concerti. e di come mi vada di condividere questi incontri con voi, perchè, per dirla con mr. zimmermann, ho riportato tutto a casa.
ringrazio veramente tanto francesca pizzo per l'idea

post scriptum: questi piccoli resoconti saranno per tanti (e)motivi imperfetti e lacunosi, perché non frutto di una indagine scientifica o di una ricerca da archivista, ma semplicemente di quello che mi ricordo, chiunque abbia voglia di contribuire a collocare meglio e con più precisione nel tempo e nello spazio questi flashbacks, è benvenutissimo


1. le orme, la bimba e la piovra

un incontro decisivo per me. due volte decisivo. comprai il 45 giri gioco di bimba quando uscì, nel 1972. avevo 10 anni, non mi ricordo se l'avevo sentito in tv o se mi aveva colpito la celebre copertina disegnata da walter mac mazzieri. in ogni caso la canzone mi piacque subito e la voce suadente di aldo tagliapietra, il tempo di valzer, i timbri delle tastiere e delle campane tubolari ( uno strumento il cui suono all'epoca mi rapiva letteralmente) contribuivano a tenere il 45 dentro al mangiadischi. probabilmente non lo identificavo ancora come rock, ma già intuivo che si trattava di qualcosa di diverso dai pooh, per esempio, che comunque mi piacevano ugualmente. lo intuivo soprattutto quando ascoltavo il retro, figure di cartone, che mi inquietava non poco, soprattutto con quello strumento che ruggiva, e che poi avrei scoperto essere un sintetizzatore moog.
e poi le orme erano un gruppo, ed io già adoravo i gruppi, mi piacevano questi capelloni che suonavano: li disegnavo continuamente sui miei quaderni e spesso quando alscoltavo le canzoni, avevo un complesso immaginario che le eseguiva. io ovviamente facevo tutti gli strumenti, ancora non avevo uno strumento favorito da suonare. la botta decisiva me la dettero sempre le orme, due anni dopo.
avevo già iniziato ad ascoltare rock in maniera un pochino piu' consapevole grazie ad un mangiacassette ed alla radio, ma essendo ancora un ragazzino con il grembiulino nero, non avevo mai partecipato ad un concerto. un concerto rock dal vivo, intendo. per il mio battesimo del fuoco dovettero concorrere tre fattori determinanti. prima di tutto la scelta delle orme di includere empoli nella loro tournèè (scelta peraltro reiterata qualche anno più tardi). poi, il fatto che all'epoca c'era l'uso di fare un concerto pomeridiano ed uno serale. altri tempi, altri uomini. ultimo, e non ultimo, il fatto che il padre di un mio compagno di classe fosse l'allora direttore del cinema excelsior, luogo in cui era previsto il concerto. quindi, dati tutti questi elementi, il mio compagno di classe, sua mamma ed io entriamo (gratis) nel cinema per assistere al concerto. per il fatto che eravamo per così dire degli invitati ci fanno accomodare non in platea, ma su uno dei balconcini che guardano il palco dall'alto. all'inizio la cosa mi indispettì un po', perchè, sebbene fosse il mio primo concerto, avrei voluto essere in qualche modo al centro dell'azione, e lassù mi sentivo un po' isolato.
ma quando alle 16 le orme salirono sul palco benedissi la casualità che mi aveva portato lassù. dall'alto della mia posizione ora posso dire privilegiata, potevo vedere perfettamente michi dei rossi circondato dalla sua batteria. era una ludwig, il leggendario modello octaplus. il nome, un gioco di parole derivato da octopus (piovra), voleva significare che la batteria aveva otto tom (tamburi, cioe) che avvolgevano totalmente il batterista. mi isolai quasi totalmente per magia da tutto il resto e mi concentrai per due ore sull'indiavolato michi e sul suo magico strumento, tirando un po' il fiato solo quando aldo tagliapietra imbracciava la 12 corde per stemperare la tensione elettrica del concerto.
alla fine, ero quasi più esausto di michi, ma ero felicissimo. di aver visto il mio concerto – di cui non capii quasi nulla – e di aver scelto il mio strumento. o fu quello a scegliere me?
una bimba mi aveva ammaliato due anni prima e ora la piovra mi avvolgeva nelle sue spire. fregato, per la vita



sabato 2 febbraio 2013

il nome della cosa


ho visto un film giusto ieri (neanche un granchè, per la verità, ma questo non deve, o dovrebbe cambiare la sostanza),e nei titoli di testa ho notato una cosa che mi ha fatto pensare. male, ovviamente.
ebbene, nei titoli si dice che il film è tratto da un' opera letteraria di qualcuno, non è importante chi. capperi. un'opera letteraria? e che cos'è un' opera letteraria? e che si intende nella fattispecie? a scanso di equivoci sono andato a controllare. ebbene, il film è tratto da 196 pagine scritte da un rispettabile giornalista italiano stampate e pubblicate da una famosa casa editrice italiana. un libro.
ora, l'avevo capito anche prima che si trattava di un libro. però, mi son detto, visto che qualcuno si è preso la briga di definirlo opera letteraria, magari è qualcosa di diverso, di più alto, che magari può sfuggire alla mia comprensione. macché, è un libro. un oggetto comunissimo ma straordinario, come la divina commedia o l'autobiografia di josè mourinho. volendo si possono definire sempre opere letterarie, ma ray bradbury in farenheit 451 li chiama libri, non opere letterarie, eppure sta parlando delle cose più preziose da difendere.
e allora, dove sta l'inghippo? complesso di inferiorità? di superiorità? fumo negli occhi? c'è qualcosa che mi sono perso o non capisco? e dunque il fatto di trovarmi di fronte ad un'opera letteraria, dovrebbe cambiare la mia disposizione d'animo, mettermi per dire in uno stato di vaga soggezione?
è un po' come quando si parla di graphic novel. graphic novel, che affascinante definizione. questo film è tratto da un graphic novel. ri – capperi. ma da quando non si chiamano più fumetti? dov'ero io quand'è successo? perché fumetto è brutto e graphic novel è bello? Quelli della marvel, di moebius o di frigidaire erano – sono - capolavori, ed erano – sono – fumetti.
e allora? si cercano definizioni nuove e più affascinanti per arginare o più probabilmente camuffare il montante imbarbarimento contemporaneo? si cerca una bella confezione per un contenuto più povero? e perché c'è questa sorta di latente vergogna, o imbarazzo, per quello che si fa, e si cerca di ridefinirlo? succede la stessa cosa con i bar. nessuno più, da tempo, apre un bar. giammai. Si apre un caffè. e se si ristruttura un vecchio bar (sempre sia lodato), quando riapre, diventa per magia un antico caffè. come se questo rendesse automaticamente le paste o i panini più buoni, il servizio migliore e naturalmente mi facesse spendere di più con atteggiamento più gioioso.
come se io domani potessi andare a comprare un'opera letteraria di fabio volo o un'opera discografica dei negramaro.

venerdì 1 febbraio 2013

abili alibi

con l'ispirazione bisogna fare come nello sfruttatissimo proverbio arabo - o è cinese? - e stare sulla riva del fiume, aspettando che passi, o bisogna attaccarla alla giugulare e berne il succo con avidità? bisogna aspettare l'argomento giusto o solleticante, o cedere all'urgenza di scrivere? ma bisogna avere un'urgenza anche qui? e c'è una dimensione da rispettare? o è un problema tutto maschile, come nel sesso (e visto che ci siamo si potrebbe tirare in ballo anche l'ansia da prestazione, già che ci siamo)?
bisogna  prendersi i nostri tempi o lasciare che la comodità della tecnologia smascheri i nostri alibi? in altre parole la pigrizia in questo caso è un vezzo o una mancanza? in ulteriori parole, ci vuole tempo per scrivere e scrivere ha i suoi tempi, o è bene imparare a scrivere mentre ci regge all'apposito sostegno sull'autobus o mentre si fa il soffritto?
bisogna immaginarsi il pc come carta ruvida sulla quale gli errori si notano o usare biecamente la tecnologia di cui sopra? e visto che siamo agli alibi, bisogna combattere la tendenza della comunicazione social network style e riconquistare una sana prolissità, o bisogna aderire con gioia alla lunghezza dei pensierini cinguettanti?
ed è bene guardare lo schermo con la ferma convinzione che le parole appariranno magicamente da sole sul medesimo, oppure ostentiamo noncuranza e aspettiamo la scintilla affaccendandoci in altre faccende?
non cerco e non chiedo risposte, ovviamente. anche se probabilmente le ho trovate scrivendo queste righe