giovedì 16 dicembre 2010

alibi generation

Devo dire che il sospetto ce l'ho da un po', ma dopo l'altra sera, quella dell'ennesimo B day (14 dicembre 2010, per i posteri che ritroveranno questo scritto nella sabbia del deserto che ci lasceremo alle spalle), è diventata una certezza. La mia generazione, non dico che ha fallito, ma sicuramente non ce la sta facendo, perlomeno in Italia.
Parlo di chi è nato grosso modo in una arco di tempo che va dal 1957 al 1967, che doveva raccogliere il testimone di chi ha vissuto e portato avanti la ricostruzione del dopoguerra, di chi ha vissuto l'esaltante fase delle idee degli anni 70, con tutte le sue controversie e i suoi sbagli. Per non parlare di chi ha difeso e fatto vincere la democrazia e la libertà negli anni 40.
Va detto, e riconosciuto con grande onestà, che quel testimone quella generazione è sempre stato riluttante a cederlo. Ma è sempre stato così, direi. Per dire ( lo dico con grande rispetto) ai vecchi, ora sta a noi, mettetevi pure comodi e grazie, ci vuole credibilità, capacità e voglia. Probabilmente le avevamo anche queste qualità, forse le abbiamo ancora. Ma non abbastanza, evidentemente. Forse siamo destinati ad un decoroso ed anonimo campionato di metà classifica e quelli dopo di noi magari vinceranno lo scudetto. Dipende anche da cosa gli lasciamo in dote.
L'Italia è ancora un paese governato da vecchi, con modelli vecchi, abitudini e usanze vecchie, un'economia e una politica vecchie.
La Merkel ha 56 anni, Zapatero 50, Cameron 44, Sarkò 55, Obama 49, Medvedev 45. Berlusconi ha 74 anni e il suo principale oppositore non si sa perchè non c'è.
Lo so che la politica necessità di maturità, ma Moro e Berlinguer sono morti a 62 anni ed erano già Moro e Berlinguer da un po'.
Si tende ad identificare la generazione dei trentennì come quella dei bamboccioni. Mah. Anche noi cinquantenni circa si scherza poco. Siamo partiti bene, o meglio qualcuno lo ha fatto, ma parecchi si son persi sulla via di Damasco o si sono accucciati in qualche angolino confortevole e riparato. Hanno tirato i remi in barca, forse non hanno mai remato.
I nostri eroi, gli eroi di molti spero, sono vecchi. Hanno dato tantissimo, e ancora stanno dando. Ma sono stanchi e sarebbe giusto, per noi e per loro, che si facessero da parte. Ma per far posto a chi?
Parliamo di cinema. Monicelli ci ha appena lasciato soli a 95 anni, Francesco Rosi ha 88 anni, Bellocchio ne ha 70 e Bertolucci, il ragazzino, 69. Ok, ciao e grazie. E chi ci mettiamo al loro posto? Verdone, Virzì o Veronesi? Dai, non scherziamo. Ce ne abbiamo di bravissimi, per carità, Soldini, Mazzacurati, Sorrentino, tanto di cappello. Ma a tutti mancata la zampata, il lampo, il quid. Ho capito che vengono dopo una generazione di maestri, ma quelli di cui sopra venivano dopo De Sica e Visconti, non dopo i Vanzina.
Non parlerò di musica, perchè sennò mi prende un mancamento, e soprattuto perchè non accetterei obiezioni.
Si, va bene, il mondo è cambiato, i tempi sono diversi. Ma chi lo ha fatto cambiare, di chi sono i tempi? Non vorrei passare alla storia come appartenente alla generazione delle giustificazioni, del ma io ci ho provato.
Ho il forte sospetto che abbiamo sempre avuto paura di rimanere da soli, oltre ad avere un enorme complesso d'inferiorità. E ora rischiamo di dover andare in pensione prima della generazione precedente, e magari è anche giusto. Anche perchè questi giovani "sbandati", "senza valori nè ideali", di chi son figli?
Molti di noi ci stanno provando, per carità, e non voglio buttare via il bambino con l'acqua sporca e qualcuno indica anche la via giusta (non parlo di Fazio e Saviano, per favore), e si fa bene.
Ma io cominceri a dare più spazio ai ragazzi. Ma ai ragazzi ragazzi, non agli eterni tali. E lo spazio vero, quello che conta, quello dove si decide. Non ad Amici o a X factor

giovedì 9 dicembre 2010

non mi piace

è il momento degli elenchi! mi è venuta voglia di stilarne uno anch'io, con le cose che non mi piacciono.
ho tralasciato i grandissimi temi, violenza sui deboli, guerre, carestie, malattie, ecc, che spero sottintese.
ho voluto puntualizzare altro, ma l'elenco non è semiserio.
potremmo cavalcare l'onda dicendo. resto anche se non mi piace:

la mancanza di sobrietà
la mancanza di stile, qualunque esso sia
il poco rispetto nei confronti della musica e di chi la suona
il fatto che tutti oggi pensino di poter far tutto
la mancanza di memoria, non solo quella storica
il non rispetto delle regole precedentemente accettate
l'eccessivo attaccamento delle madri ai figli
la latitanza dei padri
jovanotti e i negramaro, per dirne due
la superficialità e l'approssimazione
i suv in giro per empoli
chi non sta in fila
chi non dice grazie e per favore
i bambini maleducati
i loro genitori
i ragazzi di colore che ti chiamano razzisti se non gli dai dei soldi
chi parla male, potendo fare altrimenti
chi governa con il ricatto
chi non vuole essere considerato diverso
l'autocelebrazione
il calcio di oggi
i vecchi con i pantaloni a metà chiappa
i catering, i maitres, i sommeliers e gli chefs dell'ultim'ora
i cinesi che non vogliono imparare l'italiano
i mercatini di natale
i negozi continuamente aperti
chi non capisce quand'è il momento di smettere
i commessi che ne sanno meno di te
chi ha iniziato a recitare con eduardo
chi ci governa, chi li ha votati e chi li rivoterebbe
( in italia e localmente)
lavorare
la fretta
le comodità eccessive
le scarpe moderne, da uomo e da donna
l'indifferenza
"io rifarei tutto quello che ho fatto nella vita"
gli applausi sempre dovunque e comunque
l'arroganza condivisa
gli occhiali colrati e con le stanghette a cappero di cane
l'ignoranza ostentata
la -ità (italianità, empolesità, ecc)
la lunghezza di questa lista

giovedì 2 dicembre 2010

taglio degli interessi

l'età ha qualche vantaggio, senza dubbio. Non tutti quelli che si dicono in giro soprattutto dal momento che questo è diventato un paese comandato dai vecchi.
Però, rispetto a quando avevamo trenta o, peggio ancora, venti anni, poveretti noi, qualcosa si riesce a portare a casa. Non senza fatica, beninteso.
a vent'anni, in pieno, giustificato delirio di onnipotenza e con gli ormoni che ballano la conga, ci piace tutto e si vuol provare tutto. E allora cinema birmano, danza sperimentale, club culture, reading di poesia, mimo. E come ci piace tutto! Come ci interessa!
Non solo, per assecondare l'amorino di turno, chi non apprezza una bella camminata a piedi scalzi sulla spiaggia a gennaio o una passeggiata nei campi a luglio? Che volevi stare a casa ad ascoltare i Genesis? Ma vergogna.
Una vita d'inferno. Ma chi ci ammazza, siamo giovani, invulnerabili, invincibili, infallibili. Sotto sotto, il terrore di non essere accettato in certi consessi, e di vedersi negati certi amplessi, ci impedisce una certa libertà di scelta e una sostanziale sincerità di fondo, così come accadeva a noi ragazzi degli anni '80. non ti piaceva Nostalghia di Tarkovskij? Ma eri un poveretto! E poi come facevi ad apprezzare la quindicinale gita a Bagno Vignoni,sul set del film, nei luoghi ove la leggiadra vestale Domiziana Giordano (chi se la ricorda?)vagava senza costrutto alcuno? Questo, per dirne una.
In sintesi, hai pochi interessi, quali che siano? Vergogna.
Con il passare degli anni, acquisti un po' di sicurezza in te stesso, affini i tuoi obiettivi, centri e concentri i tuoi desideri. Ma non è così facile.
Cerchi delle sponde di prestigio, che servono sempre alla causa. Perché se Woody Allen non sopporta il mimo, la sua è l'originale, brillante, anticonformista posizione di un grande personaggio, e se tu invece strozzeresti ogni mimo con le righe delle sua maglietta, sei il solito polemico col paraoocchi?  Quindi. Avere molti interessi, diversificare i propri gusti,tenere le antennine sempre belle dritte, è indubbiamente cosa buona e giusta. D'altra parte non ci può far piacere tutto ed essere sempre d'accordo, anche se le cose che si dicono sono condivisibili. E così ben venga la mezza età, se questa ci permette di dire, ragazzi, io ci ho provato, ma il teatro, la danza e l'opera, non mi piacciono, non ce la faccio, non mi interessano. Mi concentro sui miei amati dischi, sui film, sui libri (anche altro, ma non è questa la sede). Non è mica poco. E neanche così facile. Perché se qualcuno – io,per esempio – prova a dire una cosa del genere, l'arricciamento del naso e l'inarcarsi del sopracciglio scattano fulminei, nonché una certa aria di commiserazione per la barbarie culturale e la vacuità intellettuale espressa da tale affermazione. Figuriamoci poi se uno esprime perplessità su un programma televisivo con elenchi, parabole, applausi e balletti convulsi. Apriti cielo. E allora, se neanche l'età ti viene in aiuto, che si fa? Si fa finta di essere ancora ragazzi? O si alza il volume dello stereo?

giovedì 11 novembre 2010

giacomo

quando ho conosciuto giacomo - e gli altri umbre dei muri, una delle esperienze musicali più belle e intense della mia vita - erano giorni assai difficili per me, forse i più difficili. la sua immediata stima e la sua ammirazione incondizionata e generosissima (ovviamente malriposte) hanno fatto tanto, tantissimo per me. così come il suo raffinato talento, sciupato, per vendere le macchine.
anche grazie a questa valanga di affetto quei giorni per me sono alle spalle, ma l'umanità, la passione e l'amicizia di giacomo sono ancora con me e io ne ho ancora bisogno, naturalmente. chi non lo vorrebbe come amico
gli ostacoli che giacomo sta affrontando sono infinitamente più alti di quelli che ho affrontato io e il mio aiuto non sarà paragonabile a quello ricevuto. e soprattutto spero che giacomo non ne abbia bisogno, anche perchè non è solo e poi, giacomo è giacomo. ma se riesco a ritornargli anche un centesimo di quello che mi ha dato, sarebbe straordinario.

e poi c'è tanto da fare, giacomo.
dai, andiamo.

martedì 9 novembre 2010

pentangle, quando il jazz corteggia il folk

Leggenda, e non solo ahimè, vuole che il musicista jazz guardi con alterigia al collega che si cimenti con il rock o il folk. Magari è interessato a quei linguaggi, ma vuole farli suoi confrontandosi, spesso malvolentieri, con competenze tecniche diverse dalle sue.
Non fecero così per fortuna nell’autunno del 1967 i signori Danny Thompson e Terry Cox. I due formavano all’epoca una delle più apprezzate sezione ritmiche della scena jazz britannica e avevano già fatto un passettino fuori dal loro mondo, in quanto militavano entrambi nei Blues Incorporated di Alexis Korner.
La loro straordinaria sensibilità musicale e la loro apertura mentale permisero loro di rispondere con entusiasmo all’appello di due giovani chitarristi, un londinese e uno scozzese di Glasgow.
I due in questione avevano già sperimentato varie fusioni di genere mischiando folk inglese, standard jazz, blues americano. Avevano già realizzato alcuni dischi per conto proprio ed uno insieme, meraviglioso, che si chiamava come loro: Bert (Jansch) e John (Renbourn).
Nell’album convivono meravigliosamente brani folk tradizionali, blues, composizioni dei due e standard jazz come “Goodbye Pork Pie Hat” di Charlie Mingus. I due portavano avanti coraggiosamente il loro manifesto musicale nel circuito dei folk club inglesi che iniziava in quel periodo ad aprirsi a nuovi stilemi espressivi. Capitava così di incontrare una ragazza dai lunghi capelli che interpretava con la stessa passione, spesso a cappella, folk inglese, spiritual e gospel.
La giovanissima Jacqui McShee aderì con entusiasmo al progetto dei due chitarristi, al quale adesso mancava l’ultimo, decisivo tassello: il più affascinante e “oltraggioso” se vogliamo: la sezione ritmica.
E la scelta fu due volte controcorrente. La prima, come si diceva, di affidarsi a due musicisti jazz fino al midollo.
La seconda, mentre la scena inglese, guidata da Cream, Yardbirds e Small Faces, virava decisamente verso l’elettrificazione, era quella di impugnare esclusivamente strumenti acustici.
Ma oramai il dado era tratto, il futuro era qui, i cinque elementi erano fusi.
Cinque elementi, cinque punte di diamante, un’unica forma, un Pentagono.

Il primo disco omonimo dei Pentangle esce nel 1968. Il jazz e il blues sono ancora predominanti, ma la miscela sonora è già affascinante. L’interplay fra Jansch e Renbourn si snoda sui ritmi afroamericani di Cox e Thompson creando una cifra stilistica già indelebile. Su tali, inauditi contrasti sonori, la voce eterea e magnifica di Jacqui si muove orgogliosamente traditional.
Alla fine dello stesso anno esce Sweet Child, doppio album registrato per metà dal vivo alla Royal Albert Hall. La parte live è ancora dominata dal jazz con due omaggi di Thompson a Mingus e al blues. Le reazioni entusiaste del pubblico testimoniano del già ampio consenso raggiunto dal quintetto. Nella porzione in studio, invece, il repertorio è più orientato verso la musica popolare britannica.
L’anno successivo esce uno dei loro capolavori, il magnifico Basket of Light, il disco nel quale la fusione tra generi è più completa e riuscita. Non a caso, si tratta anche del disco di loro maggior successo. Il jazz sparisce come genere in quanto tale, ma rimane come ingrediente fondamentale, soprattutto a livello ritmico. Ci sono diverse composizioni della band e le voci di Jansch e Renbourn affiancano spesso quella di Jacqui Mc Shee. Si va dal solenne traditional corale “Lyke Wake Dyrge” a un successo del ‘63 delle Jaynetts, “Sally Go Round the Roses” in caleidoscopio sonoro, rigorosamente acustico, che culmina nel brano manifesto: “Light Flight”.
La canzone diventò anche un 45 giri di notevole successo, oltre che la sigla di un telefilm della BBC dal titolo “Take Three Girls”. Si tratta di un brano sostanzialmente pop dalla complessa struttura ritmica jazzata (si intrecciano con disinvoltura 5/8, 7/8 e 6/4!) nel quale Jacqui canta una melodia di stampo tradizionale. L’effetto è sorprendente, affascinante e gradevolissimo.

Nel 1970, l’album Cruel Sister sposta decisamente il baricentro verso il folk, presentando esclusivamente brani tradizionali, uno dei quali, “Jack Orion”, occupa un’ intera facciata. La scelta stilistica non impedisce ai Pentangle di continuare a sperimentare, si vedano appunto le lunghe digressioni strumentali del brano citato, o l’uso da parte di Renbourn del sitar e, per la prima volta, della chitarra elettrica.
La vita nello show biz non è facile per un gruppo rigoroso come i Pentangle, e infatti le tensioni all’interno del gruppo iniziano a farsi sentire, oltre ai problemi alcolici di Jansch e Renbourn.
Il disco successivo, Reflection, viene realizzato in tre settimane nel marzo del 1971 e mostra i primi segni di cedimento, pur essendo un album notevolissimo. Ci sono quattro composizioni del gruppo e quattro traditionals, questa volta tutti americani ed il risultato è di straordinaria omogeneità, a ulteriore testimonianza del valore raggiunto dal gruppo. Due brani per tutti il tradizionale dei monti Appalachi “Wedding Dress”, e “When I Get Home” di Bert Jansch.
Nel 1972 i Pentangle cambiano etichetta passando dalla Transatlantic all’americana Reprise. Prima di partire in tour registrano piuttosto frettolosamente il loro ultimo album, Solomon’s Seal, sicuramente il loro album meno significativo. Grande maestria tecnica, affascinante mistura di stili, brani tradizionali e originali, ma una patina di stanchezza e l’assenza della scintilla vitale degli inizi permea il lavoro. Le vendite non entusiasmanti dell’album contribuiranno allo scioglimento del gruppo nel 1973, ponendo fine ad una delle rivoluzioni sonore più sconvolgenti della storia del rock.
Un’alchimia sonora così particolare e originale che nessuno è stato in grado di riproporre. Un’esperienza sonora ancora oggi ineguagliata ed attuale, che li poneva già allora un corpo estraneo, per esempio, nella pur innovativo movimento folk rock inglese di quegli anni. Ed erano anni in cui le sperimantazioni non mancavano!
Le varie riproposizioni del gruppo, mai in formazione originale (a parte alcuni concerti celebrativi nel 2008), non hanno fatto altro che evidenziare l’unicità di quell’esperimento straordinario, che oggi come ieri, vale la pena di riascoltare. Anche perchè i dischi dei Pentangle sono stati tutti ristampati su cd.
Provare per credere

articolo pubblicato su il diario di musicastrada http://www.musicastrada.it/

lunedì 25 ottobre 2010

riflessi(vo) d'epoca.

Sono oramai quasi trent'anni che si cerca, in molti casi con una buona dose di ipocrisia, di salvare il congiuntivo. Era il 1983, o forse il 1984, quando nacque a Firenze il comitato S.I.C. (salviamo il congiuntivo). Sembrava allora un vezzo da intellettuali. Ma erano gli anni della Milano da bere e da imitare, la quale a sua volta si attaccò disperatamente al modello culturale dell'america reaganiana degli yuppies e del rat pack. Nella grammatica inglese non c'è il congiuntivo, ma nella nostra si. E quindi sarebbe bene usarlo, anche se è (diventato) faticoso. E poi per chi vive a Milano e a Roma soprattutto, usare il congiuntivo è innaturale. Ed è lì che si stampano i giornali, che si fanno i programmi tv. E allora basta che che io vengo, non importa che lo fai, a condizione che voi ci siete, penso che ci sono.
C'è addirittura un clamoroso e mai citato precedente nel testo di Una carezza in un Pugno di Celentano ("....Ma non vorrei che tu a mezzanotte e tre stai già pensando a un altro uomo". Si direbbe "stia", Adriano....).
E quindi, eccoci qua, in ossequio al pensiero forte, ma soprattutto ignorante, il disuso del congiuntivo, non è più considerato un errore, una mancanza. E il suo impiego è oramai ignorato soprattutto da chi non dovrebbe, giornalisti, uomini politici e pubblici, scrittori, autori di canzoni.
E nell'entusiasmo della semplificazione, c'è un altro modo verbale che da un po' di tempo viene allegramente massacrato, nell'indifferenza generale. Ed è al riflessivo che mi riferisco, anzi riferisco.
Oggi la situazione evolve, la temperatura alza, la protesta allarga, le scorte esauriscono. E non lo dice la gente comune. Lo dicono in tv, lo dice la Marcegaglia, lo dice Di Pietro, lo dice Mentana. Persone che spesso vengono imitate e seguite.
Ora, al di là del fatto che è sbagliato non usare il riflessivo quando va usato, e già questo basterebbe, c'è un altro problema. La gran parte dei verbi che (non) vengono usati al riflessivo è di tipo transitivo e quindi necessitano generalmente di un complemento oggetto. La temperatura alza chi o cosa? La testa? E la protesta allarga cosa, il suo giro di conoscenze? E le scorte chi esauriscono? Me, senza dubbio, ma lasciamo fare.
"Evolvere" come dice il Devoto Oli 2010, nella sua forma transitiva è un verbo "non comune di uso matematico", quindi si usa sempre (sempre) a sproposito. Così come "emozionare". Prima era sempre riflessivo, emozionarsi. Ed era indubbiamente più bello se ci pensate. Prima un film ci emozionava, e c'era una connotazione più intima, più personale del sentimento. Adesso un film emoziona. A largo raggio, a cascata., in maniera più massiva. O peggio ancora "fa" emozionare, come fosse l'effetto di un parafarmaco.
Non la capisco questa esigenza di tagliare, di sfrondare. Di rendere il linguaggio più snello, veloce, internazionale. Chi se ne frega. Se ci vuole di più a esprimersi correttamente, pace. Se è un po' più impegnativo, idem.
E poi, c'è questo da dire. Non usare il riflessivo, e il congiuntivo, naturalmente è brutto. Ma brutto brutto.
Quando parleremo all'infinito come gli indiani dei fumetti o i neri nei film degli anni 40, non dite non vi avevo avvertito. Sennò arrabbio.

giovedì 21 ottobre 2010

una volta si chiamava pop. storia di un amore. prima parte

non so se sia nato prima l'uovo o la gallina, e francamente non me ne importa. sto parlando dell'amore, smodato, maniacale, assoluto per la musica. non vengo nè da una famiglia, nè da un ambiente, nè da una città particolarmente versati per la musica, ma tant'è. la musica veniva dalla tele, principalmente. zecchino d'oro, gli show per ragazzi del sabato pomeriggio, qualche sigla che mi ronzava strana (avventura: inziava con joe cocker e finiva con i procol harum). c'erano anche i polverosi stereo otto dell'autoradio, ma in repertorio c'era solo fausto papetti. la radio l'ascoltavamo soprattutto d'estate ed era soprattutto radio montecarlo. non mi piaceva molto l'estate e quindi non associo musica a questi ascolti sulla spiaggia. mi ricordo soprattuto le pubblicità delle sigarette peter stuyvesant e hb, e i quiz della cera grey. penso di aver iniziato a comprare autonomamente i miei primi 45 giri a sette, otto anni. li sceglievo da una scatola di legno sul bancone di un negozio di elettrodomestici davanti casa mia. tanto sanremo e, soprattutto canzonissima, allora. massimo ranieri è stato il mio primo idolo. ma anche nada, marcella, i ricchi e poveri. mi piacevano i cantanti, ma già buttavo un occhio all'orchestra, soprattutto a quella della rai, che aveva addirittura due, sbrillucicanti (per quanta sbrilluccicanza rendesse una tv in bianco e nero) batterie. in casa mimavo un complesso immaginario (intero) e iniziavo a disegnare complessini sui quaderni. il primo si chiamava the mortadellas. la musica veniva ancora principalmente dagli show della rai del sabato sera che aspettavo, come si dice, a gloria. ma c'era un altro programmino che mi intrigava, ma che vedevo a spizzichi e bocconi. si chiamava adesso musica classica. leggera, pop, lo presentavano nino fuscagni e vanna brosio. ed era proprio quel pop che mi interessava (si ok, anche vanna brosio bionda e prosperosa diceva la sua, ero un bambino sano, tutto sommato).
tutti quei capelloni che si agitavano, quelle musiche roboanti ed incomprensibili erano una specie di canto delle sirene per me. tant'è che quando, a sanremo 1972, i delirium arrivarono sul palco per cantare jesahel con quella manica di hippies de noantri, per me fu una bella botta. ho un ricordo preciso di me che gioco con i soldatini con il mio mangiadischi arancione sul pavimento e jesahel, neanche tanto in sottofondo. oltre ai soldatini, facevo le collezioni di figurine, come tutti. ma non solo i calciatori. la panini ne buttò fuori una sui cantanti, sempre nel 1972. anche lì era pieno di capelloni. qualche nome mi colpì, chissà perchè, tipo colosseum e deep purple.
non mi ricordo in base a cosa scegliessi i 45 da comprare. boh. comunque avevo pensiero dei pooh, la canzone del sole, angie dei rolling stones, il gabbiano infelice del guardiano del faro, drinking wine spoode oode di jerry lee lewis, satisfaction dei tritons, gudbuy t'jane degli slade e pop corn della strana società, per dire.
non solo, ci si metteva anche il telegiornale ad intervistare i capelloni. mi ricordo di uno con una divisa larga cinque centimetri in testa (era peter gabriel), alcuni fratelli barbuti (i gentle giant) ed uno di cui mi ricordo gli stivaletti e che avevo capito si chiamasse pizz infield (sic).
eh si, mi piacevano, i capelloni

domenica 17 ottobre 2010

articoli determinanti

è bel po' che ci rimugino. sull'uso degli articoli, intendo. non quelli che compriamo o produciamo. parlo degli articoli grammaticali. soprattutto determinativi, spesso determinanti.
per esempio. da un po' di  tempo qua da noi fare le cose semplici, o peggio dei mestieri semplici, sembra essere diventato più infamante dell'annegare i propri figli nell'acido.
e quindi non si apre più un bar, ma un caffè, una colazioneria, e, se proprio dev'essere bar, perlomeno che sia american. lo stesso dicasi per i ristoranti. da quando i cuochi (pardon, gli chefs) hanno più autorità di gandhi e un cameriere, con tutto il rispetto, svolge una funzione più importante di, per esempio, un musicista, è tutto un fiorire di locande, bistrots, brasseries.

ed è proprio in questi templi in cui anche i palati più spessi si proclamano gourmets dalla nascita, che gli articoli diventano armi letali. si perchè sul menù, scritto talvolta da un amanuense benedettino, la voce "primi piatti" è sostituta da "I primi", e "secondi" diventa "I secondi piatti", o meglio ancora LE carni o I piatti di pesce. come a dire che desiderare di mangiar qualcosa che non compaia in questa eletta (molto spesso esigua) lista di vivande, avvelena l'anima, prima ancora che lo stomaco. e che i 20 euri che vi richiedono per sorbire questo piatto definitivo sono anche pochi.
non solo. chi, aprendo la carte, si trovi di fronte finalmente a I primi, è autorizzato a gioire, perchè finalmente li ha trovatI! quelli sono i primi, e non altri! evviva, basta pastasciutte o risotti! eccoli, i mezzitubi all'uso della cascina toscana (maccheroni al pomodoro) a 15 euri!!
fantastico. e molto spesso gli articoli determinanti sono al plurale: un po' per una remora a non voler sfidare direttamente l'assoluto con l'uso disinvolto dell' IL (ma ci arriveremo).
e un po' perche così si fa più ciccia, scrivendo LE cioccolate, GLI infusi, I distillati e, soprattutto, I caffè. questi ultimi poi vanno adesso sotto il nome collettivo di "piccola caffetteria", perchè qual è la grande caffetteria, un sacco di juta da 20 kg di cafè do brasil?

non meno micidiale è l'oramai consolidata articolorepellenza di molte parole. prima fra tutte (la) palla. intesa come pallone da calcio. perchè il centrocampista tocca palla, la squadra tiene palla, il portiere rimette palla, il difensore perde palla e, soprattutto, il goal viene da palla inattiva. (quand'è che che la palla è attiva? quando esce la sera o fa qualcosa per il prossimo?

ok? quindi ordinate pure IL primo del giorno. o chiedete palla

venerdì 15 ottobre 2010

tanto rumore per nulla

soprattutto quando si parla di musica non mi piace quello che brontola a prescindere. cioè a volte mi piace, ma se si parla di musica (rock) non mi piace. è anche per questo che ho voluto capir bene chi fossero gli arcade fire. già il fatto che piacessero così tanto a chris martin me li ha fatti rimanere con grande naturalezza sugli zebedei. d'altro canto, piacciono a così tanta gente che stimo, peter gabriel per dirne uno, che non volevo essere ancora una volta l'unico broccolo che non capisce quando un gruppone è un gruppone. è per questo che mi son messo di buzzo buonissimo a guardare una serie di video tratti da un concerto al madison square garden (addirittura). l'impatto è notevole. già i video sono diretti da terry gilliam, è questo, diciamo, aiuta. nelle belle immagini si vede il notevole spiegamento di forze dei canadesi. 9 mucisti sul palco, due, talvolta tre violini, due batterie, tastiere vintage, insomma un bell'armamentario da mettere in campo. però.
poi però, si cominciano a vedere i particolari. le capigliature "moderne" che permettono ai ciuffi di ondeggiare ad ogni scuotimento di testolina, abbigliamenti e atteggiamenti civettuoli, gli strumenti indossati più che suonati, frenetici e sistematici scambi di postazione, strumenti marginali maltrattati con gran foga, ma assolutamente ininfluenti ai fini del risultato. che spesso è portato a casa unicamente dall'accoppiata basso/batteria. il che va a grande discapito della struttura armonica dei pezzi, che risultano quasi sempre essere lunghe litanie un po' anni '80 officiate dal leader win butler, su una base pseudo disco.
ora se chris martin li definisce "the greatest band in history" (secondo me soprattutto perchè qualcuno invece gli dica che i migliori sono i coldplay) e se gli u2 hanno scelto wake up come intro per il tour di vertigo, qualcosa vorrà dire. vorrà dire di certo, per carità. io vedo soprattutto un gran polverone, un fantastico buttarla in caciara, un tutto sommato risparmiabile dimenarsi.
e l'ennesimo gruppo che ha inventato la musica.
si comincia. in qualche modo. senza fretta, però. quella c'è già, non serve che ci sia anche qui.
si parlerà delle cose che interessano a me (il blog è mio). musica, libri, cinema, vita, in generale. spazio al banale, anche, e soprattutto, non necessario. anche di necessario c'è già troppo. vai, si va. se vi viene in mente qualcosa, ditelo